Dall’HALO allo Shield: è questa la strada per una F1 sicura?

Dopo l’ultima riunione dello strategy group, è stato ufficialmente accantonata la proposta dell’HALO, un sistema nato per provare ad aumentare la sicurezza dei piloti. In tutta risposta è arrivato un nuovo concept: lo “Shield”, che riprende i concetti dell’Aeroscreen, proposto da Red Bull, rielaborati in modo meno invadente. Ma è davvero necessaria una corsa alla sicurezza in questi termini?

di Giuseppe Gomes

Motorsport is dangerous. Una frase trita e ritrita, spesso tirata fuori quando si assiste attoniti allo scontro tra due storiche fazioni: quelli che vogliono (giustamente) ridurre il più possibile rischi per i piloti, e chi, anche romanticamente, continua a vederli come eroi moderni, pronti a tutto per raggiungere il proprio obiettivo: essere i migliori. Negli ultimi anni abbiamo spesso sentito e letto di scontri del genere, soprattutto riguardo alla Formula 1. Vie di fuga in asfalto, vetture profondamente ridisegnate all’anteriore (con gradini, vanity panel, e strane “protuberanze” sulla punta), protezioni ai lati dell’abitacolo sempre più ingombranti e chi più ne ha più ne metta, tutti tentativi volti ad esorcizzare sempre di più una paura che, sentendo le opinioni di molti piloti, sembrano avere più gli opinionisti dei piloti stessi: quella della morte.

Ma quando nasce l’idea di chiudere l’abitacolo delle monoposto Formula? Facciamo un salto indietro di qualche anno. Il 19 luglio del 2009 muore Henry Surtees, il figlio del leggendario eroe dei due mondi John (unico pilota in grado di vincere un mondiale sia sulle due che sulle quattro ruote), a Brands Hatch in occasione di una gara di Formula 2 Britannica. Le dinamiche sono chiare: una ruota, staccatasi da una monoposto, rimbalzando urta la testa del giovane pilota. Una dinamica particolare, che portò subito sotto le luci dei riflettori la sicurezza sulle moderne monoposto “Formula”. Da quel tragico accaduto, si cominciò a parlare di soluzioni, adottabili per proteggere la testa del pilota in caso di urti frontali. Nel 2010, ad Abu Dhabi, lo scontro tra la Mercedes di Schumacher e la Force India di Vitantonio Liuzzi riaccese il dibattito (nella dinamica la vettura dell’italiano saltò letteralmente sopra quella del collega tedesco), così come accade nel 2012 a Spa Francorchamps tra Romain Grosejean e Fernando Alonso, alla prima staccata dopo il via. Giungiamo così al tragico week end di Suzuka 2014.

Il 5 ottobre si correva il GP del Giappone, sotto una pioggia torrenziale che aveva caratterizzato quasi tutta la gara, a causa dell’avvicinamento del tifone “Phanfone”. Al 43° giro, mentre davanti le due Mercedes di Rosberg ed Hamilton si davano battaglia, alla curva Dunlop sbattè Adrian Sutil. I commissari uscirono prontamente per recuperare la Sauber del pilota tedesco. Il “fato” volle che, in quel momento, sopraggiunse la Marussia di Jules Bianchi, che perse il controllo della vettura e si schiantò sotto a quella gru, appena uscita per velocizzare il recupero della Sauber del tedesco. Da quel pomeriggio Bianchi non riaprì più gli occhi. Era dal 1994 che la Formula 1 non assisteva ad un incidente mortale, proprio per questo, quel giorno, fu il punto di svolta nel discorso sicurezza. Cominciò la vera e proprio rincorsa a trovare una soluzione che potesse chiudere, nel modo meno invadente, il cockpit. Dimenticando però un elemento fondamentale: quella gru non doveva essere li.