Hubert, il black-out comunicativo e la percezione del rischio

Anthoine Hubert, 1996 . 2019

Tragedie come quella di Hubert non possono non far riflettere. Non è mia intenzione tediarvi con considerazioni sui risvolti umani della vicenda. Firme ben più degne della mia vergano epitaffi di assoluto rispetto, ai quali c’è ben poco da aggiungere.

Sono altri gli aspetti che vanno approfonditi. Forse più spigolosi, per i quali è bene dotarsi di una qualche forma di cinismo. E che mi hanno colpito nelle ore immediatamente successive all’incidente occorso tra Eau Rouge e Raidillon sabato pomeriggio.

Discernere la fredda cronaca dalla pietas humana in questi casi è esercizio tremendamente complicato. Rivedo quel brandello di abitacolo che rimane dell’auto di Hubert e fatico a non pensare al momento del distacco dell’anima dal corpo. Non posso non augurarmi che l’impatto sia stato tale da evitare al giovane francese il dolore. Fisico, terreno.

Già, le immagini. Ricostruire la dinamica dell’incidente non dovrebbe essere complicato vista la copertura televisiva dell’evento. Eppure ci siamo ridotti – oserei direi come al solito – ai filmati amatoriali degli appassionati caricati su YouTube. Uno in particolare, con uno sforzo interpretativo non indifferente, tenta di ricostruire i momenti chiave della vicenda.

Nelle parole dell’autore stesso, si tratta per l’appunto di una mera interpretazione. Non c’è garanzia che le cose siano andate effettivamente così. La motivazione (di facciata?) per cui i filmati ufficiali non sono disponibili è la stessa che ci viene propinata da Jules Bianchi in poi: rispetto per la memoria del pilota, e per la sensibilità degli spettatori.

Non mi azzardo a sindacare sulla prima. Purtroppo, non siamo nelle condizioni di poter chiedere ad Anthoine cosa ritenga più giusto per la tutela della sua memoria. Come non lo è peraltro la FIA. Sulla seconda nutro estreme perplessità. Il video sopra menzionato, pubblicato il giorno stesso dell’accaduto, ha totalizzato ad oggi oltre duecentocinquatamila visualizzazioni. Sono disponibili, sempre sul social media di Google, decine di altri video analoghi. Immagini ufficiali e non, milioni di click. C’è da domandarsi se in Liberty Media (o chi altro produca le immagini del Campionato di F2) vivano in una bolla spazio-temporale ferma all’inizio degli anni ’90, o poco prima. Prima dell’avvento della rete, per intenderci. Prima del prosperare di quei social media di cui essi stessi fanno ampio uso.

Pensare che, in un’epoca in cui documentiamo in tempo reale anche i piatti che mangiamo, non ci fosse qualcuno  – nel punto più affascinante di tutto il circuito – pronto a riprendere la scena dell’impatto con il suo smartphone, fa sorridere. L’oscurantismo di stampo medievale di cui la FIA e i broadcaster ufficiali si sono resi protagonisti ha del paradossale. “Noi non vi facciamo vedere le immagini”. Noi no, qualche altro che vuole speculare sulle tragedie, sì. Questo è il messaggio che, poche ore dopo la morte di Hubert, ha veicolato in diretta la TV ufficiale per l’Italia di F1, F2 e F3. Con annesse lacrime a favore di telecamera, che ci auguriamo fossero sincere e non di circostanza.

Inutile dire che, per chi scrive, le motivazioni sono altre. In pista, dai tempi di Ratzenberger e  Senna, non deve morire più nessuno. E non si tratta esclusivamente di un mantra sulla sicurezza. Significa che si deve fare tutto ciò che è necessario per evitare che la formalità della morte sia certificata all’interno di un circuito. E le immagini, per quanto possibile, devono servire a questo scopo. Così è stato per Jules Bianchi, così è stato sabato per Anthoine Hubert. Nè la FIA, nè Ecclestone prima o Carey oggi vogliono ripetere l’esperienza di Imola 1994, fatta di processi penali e mediatici. I panni sporchi ce li laviamo in casa, grazie.

Il diritto di cronaca resta quindi avocato alle supposizioni degli appassionati. Appassionati, come noi, che credono sia giusto sapere come sono andate le cose anche e sopratutto nell’interesse di chi la vita la mette sul piatto tutte le domeniche, per rincorrere i propri sogni, e far sognare milioni di tifosi nel mondo.

Le circostanze che portarono alla morte di Jules Bianchi, e all’introduzione dell’Halo, furono rese note al pubblico proprio grazie ad un filmato amatoriale. Così come oggi la dinamica dello schianto della monoposto di Hubert all’uscita di Eau Rouge – Raidillon servirà probabilmente a fare qualcosa in più per i  circuiti e per le cellule di sicurezza delle monoposto. Dati di fatto che stridono con il principio secondo il quale per tutelare la nostra sensibilità di spettatori, non dovremmo sapere nulla. Non dovremmo essere consapevoli.

A proposito di consapevolezza, ho trovato molto interessanti le parole di Jacques Villeneuve che resta sempre, nel bene e nel male, uno spirito libero. L’ex campione del mondo canadese ha puntato il dito contro la mancanza di consapevolezza, di percezione del rischio delle nuove generazioni. Che non sanno cosa significhi girare in pista, perché non gli è permesso – data l’abolizione dei test privati. Ragazzi che passano la vita davanti ad un simulatore, e quando si calano nell’abitacolo ne percepiscono l’adrenalina, ma forse inconsciamente non il rischio. Ed ecco allora che automobili che raggiungono velocità notevoli come quelle di F2 – paragonabili a quelle delle auto con cui gareggiavo io”, continua Jacques – non “hanno la stessa solidità di chassis”, e gareggiano su piste in cui la rimozione di barriere in erba e sabbia e l’allargamento delle vie di fuga creano “un falso senso di sicurezza”, di invulnerabilità agli eventi.

Cosa sarebbe successo se la carambola di sabato, innescata probabilmente da una perdita di controllo di Giuliano Alesi, avesse avuto come contorno delle vie di fuga vecchio stile? Forse il figlio di Jean si sarebbe insabbiato, e Hubert non avrebbe perso il controllo cercando di evitarlo. Di certo, Correa non si sarebbe trovato fuori traiettoria, oltre i limiti della pista, in rotta di collisione con la monoposto impazzita del francese. Il design dei circuiti è tema di cui già si parla da tempo in chiave sportiva, vista la necessità di adeguare le interpretazioni del regolamento ad un rinnovato spirito competitivo dei piloti – votato allo spettacolo, come chiesto a gran voce dopo gli eventi del Canada. Ma questi ragazzi devono anche avere chiaro che la realtà non è un ologramma. Che l’intelligenza artificiale, per quanto affinata, non è non sarà mai come l’esperienza in pista.

Esperienza: ma siamo realmente sicuri che i venti piloti che partecipano al campionato di F2 siano effettivamente pronti a gareggiare su monoposto già velocissime, e su tracciati che hanno fatto la storia del motorsport? Nove di essi, tra cui lo sfortunato Hubert, sono rookies, debuttanti. Partecipano per la prima volta ad una competizione che negli anni si è fatta sempre più importante e carica di pressioni. Hubert stesso era arrivato, sgomitando, ad essere incluso nel programma junior di Renault. Oggi le driver academies – e l’esserne parte – sono la nuova mecca dell’automobilismo sportivo per chi aspira ad una carriera nei motori. E tutti cercano di trovare un posto al sole, com’è normale che sia. Magari prendendosi qualche rischio in più. Per dimostrare di averne di più.

Nel volto sorridente, un po’ nerd, di un ragazzo di ventidue anni, possiamo rivederci un po’ tutti. Nel desiderio di emergere, di fare della propria passione una ragione di vita. Anthoine Hubert sognava un futuro a fianco di quella gang di giovanissimi francofoni – Leclerc, Gasly, Ocon – tutti della stessa età, cresciuti assieme tra olio, benzine, gomma e velocità. Che oggi si sentono un po’ più soli, forse spaesati, angosciati ed intimoriti. “A ventidue anni non sei pronto a perdere il tuo migliore amico”, ha dichiarato un Pierre Gasly visibilmente provato ieri dopo la gara.

Per quello, forse, non si è pronti mai.

Filippo Toffanin