Ci sono piloti destinati a passare alla storia e altri che, invece, entrano direttamente nella leggenda. Quei piloti che, grazie alle loro imprese che si consumano nello spazio di una gara, sono destinati a scrivere pagine incancellabili, impresse per sempre nella memoria degli appassionati, capaci di scaldare il cuore a un “duro” come Enzo Ferrari. Un uomo che amava le macchine, ma che non ha mai manifestato grandi sentimenti verso i propri piloti. Tutti tranne uno. Sul libro “Piloti, che gente” il Drake scrisse di questo pilota “Io gli volevo bene”. Chi era? Proprio lui, Gilles Villeneuve, al quale è dedicato il ritratto numero 53 dei personaggi che hanno fatto la storia della Formula 1. E per ricordarlo, oltre che alle sue gesta, faremo riferimento anche alle sue parole.
Nato come pilota di motoslitte insieme al fratello Jacques (che diventerà un vero asso della specialità ), Gilles, dopo aver corso e vinto in Formula Atlantic, entra in Formula 1 grazie al fiuto di Teddy Mayer, che lo piazza su una delle sue M23, dove si mostra subito velocissimo, chiudendo le qualifiche nella top ten. Tanto basta per solleticare gli appetiti di Enzo Ferrari, che stava riportando Niki Lauda verso il titolo mondiale ma che doveva gestire i mal di pancia dell’austriaco, che dopo il gran rifiuto del Fuji si sentiva un “separato in casa” dopo l’ingaggio di Carlos Reutemann. E così, dopo aver fatto suo il titolo, Niki sbatte la porta e se ne va, lasciando Ferrari e Montezemolo a cercare un’alternativa, che trovano proprio nel canadese.
Il mito dell’Aviatore – Prima gara a Montreal, senza grosse velleità , ma sarà al Fuji che farà parlare di sé, con un incidente in cui carambola sulla Tyrrell di Ronnie Peterson e uccide un commissario e un fotografo. Nasce, così, la leggenda negativa dell’Aviatore, con stampa e addetti ai lavori che lo attaccano, ma viene difeso da Enzo Ferrari, che continua a credere in lui anche per gli anni successivi. E nemmeno il 1978 parte benissimo, per colpa di un incidente che metterà fuori gioco la Shadow di Regazzoni. Ma sembra che uno dei suoi celebri aforismi fosse la risposta a tutte le critiche che gli stavano piovendo addosso: “Non puoi staccare il piede dall’acceleratore mentre stai correndo veloce. L’unica speranza è che l’altro pilota ti stia guardando nello specchietto retrovisore.” Ecco, questo era Villeneuve, uno che non le mandava a dire: “Quando faccio un incidente, per i giornali, la televisione o per quello che immagina la gente, è come se io avessi fatto cinque incidenti“. E se questo è vero, fu assolutamente determinato a dimostrare che tutti i suoi critici si sbagliavano, tra cui il suo scomodo e fin troppo spavaldo compagno di squadra Carlos Reutemann. E infatti, dopo alcune gare, in Canada arriva la sua consacrazione, proprio al termine della stagione, a voler dare una risposta, e forse anche uno schiaffo, a tutti i suoi detrattori con una splendida prima vittoria.
Uno che non aveva peli sulla lingua, che amava profondamente correre con qualsiasi mezzo, fosse un’auto da corsa o una motoslitta (vincerà il Campionato del mondo del 1974), e lo amava talmente tanto da dare tutto se stesso per inseguire il suo sogno, diventare il pilota da corsa più veloce del mondo (“Datemi qualsiasi cosa a motore e ve la porterò al limite“). Perché non sono le vittorie che costruiscono la leggenda, ma le piccole e grandi imprese dentro e fuori dalla pista. Arrivò persino a vendersi una casa per prendere una macchina, fino a stabilire un suo personalissimo record da Maranello a Montecarlo, percorso a velocità folle, che tentava sempre di battere (le cronache narrano di un record di 2 ore e 25 minuti per percorrere 435 km, a 180 km/h di media). Uno che ci metteva l’anima per correre, perché non poteva farne a meno. E non poteva fare a meno della sua natura, egocentrica ai limiti del fastidioso (“In Formula 1 quelli col casco si dividono in due categorie: ci sono i piloti e quelli che semplicemente guidano le macchine da corsa“), pazza e maledettamente temeraria. Parlava in modo semplice, pensava in modo semplice, agiva in modo pressochè immediato: l’importante era correre. “Io corro per vincere, ma soprattutto corro per correre, il più velocemente possibile“; un messaggio limpido, purissimo, liberato da tutte le logiche che con le corse non avevano nulla a che fare, e maledettamente efficace. Una lezione di vita sportiva che molti non hanno capito o forse non hanno voluto capire. Lui era Gilles Villeneuve, nato per correre; le vittorie sarebbero arrivate dopo.
1979, Jody-Gilles coppia imbattibile – Ed ecco che, nel 1979, arriva la più bella delle conferme: prima porta alla vittoria in due gare consecutive l’esordiente T4, la celebre “ciabatta” di Mauro Forghieri che sbaraglia la concorrenza delle Lotus 79, poi fa venire il mal di testa a René Arnoux a Digione, in quello che è il duello più straordinario della storia della Formula 1, uscendone da trionfatore, e ancora dà una dimostrazione di caparbietà e cocciutaggine a Zandvoort, quando compie un giro su 3 ruote dopo la foratura della posteriore destra, per rientrare ai box pensando di poterla sostituire, dimenticandosi di aver rotto persino la sospensione. Ancora una volta, gli addetti ai lavori lo criticheranno, ma non Enzo Ferrari, che anzi vedrà positivamente questa sua indole di cercare sempre il limite, guidando di traverso e andando sempre al limite, a volte anche oltre. Impazza la “febbre Villeneuve”, visto che tutti, ma proprio tutti, si innamorano di quella voglia pazza del funambolico Gilles di andare sempre oltre (“Se vuoi cercare il limite prima devi oltrepassarlo“) sfidando gli avversari, il mezzo e le leggi della fisica.