La stagione 2024 della NTT IndyCar Series sta per accendere i motori con il Firestone Grand Prix of St. Petersburg che avrà luogo domenica 10 marzo sul circuito cittadino dell’omonima città della Florida. Tutto bello e avvincente, direbbe qualcuno, una nuova stagione è alle porte e non rimane che attendere il semaforo verde per capire quali saranno gli equilibri e i pretendenti al titolo.
E invece no, o meglio, non del tutto. Sì, perché il futuro della IndyCar è sempre più nebuloso e la sensazione è che l’incertezza regni sovrana. In questo, la differenza rispetto alla Formula 1 è assolutamente netta ed evidente. In Europa siamo abituati che vengono fatti dei programmi da qui a tre o cinque anni, durante i quali si dà vita a cicli tecnici che separano le varie “ere” caratterizzate dai diversi regolamenti. I costruttori e i team vengono portati a un tavolo e tutti devono affrontare i diversi argomenti sulle basi dei quali viene poi deciso il futuro della categoria. C’è una leadership chiara, insomma, dettata dalla FIA, dagli organizzatori e dai costruttori.
Sembra ieri che la Formula 1 ha adottato i motori turbo ibridi, ma abbiamo già vissuto l’epopea Mercedes e ora siamo nel pieno del secondo ciclo vincente della Red Bull. Nel frattempo, si sta parlando del 2025 con il passaggio di Hamilton in Ferrari e del 2026, quando arriveranno i nuovi regolamenti e ci sarà l’ingresso di Audi. Il tutto è iniziato nel 2014, siamo nel 2024 e si parla già di 2026, quando i motori verranno ulteriormente cambiati. Quanti anni saranno passati quando il circus della F1 arriverà al 2026? Dodici.
Tornando negli Stati Uniti, ci troviamo di fronte a una situazione totalmente antitetica. La scelta dei motori ibridi è stata annunciata ormai quasi quattro anni fa e, nel frattempo, sono stati completate oltre 15.000 miglia di test coinvolgendo entrambi i motoristi della serie (Chevrolet e Honda – NDR) e oltre quindici piloti. Il 2024 avrebbe dovuto rappresentare l’inizio del nuovo corso, tuttavia, il Presidente Jay Frye ha rimandato l’introduzione del motore ibrido alla seconda parte di stagione, ovvero a dopo la 500 miglia di Indianapolis. Una data possibile e realistica potrebbe essere quella di Mid Ohio, il 7 luglio, ma non c’è ancora nulla di ufficiale.
La motivazione del rinvio risiederebbe nella carenza di parti per poter assemblare le unità richieste. Per poter meglio comprendere la situazione, è utile introdurre qualche numero. La griglia della IndyCar è composta da 27 piloti a tempo pieno suddivisi in 11 team (più altri due part-time). Ma in occasione di appuntamenti speciali come la Indy 500, i piloti salgono da 27 a 33. Per regolamento, ogni partecipante ha diritto ad avere a disposizione quattro motori, il che vuol dire che la stagione regolare porta i costruttori a dover fornire 108 propulsori, numero che sale a 132 unità in occasione della 500 miglia di Indianapolis. In uno scenario come questo, è sufficiente un ritardo nella catena produttiva per generare problemi. Può capitare, direte voi, ma la questione è molto più seria e profonda.
Il telaio sul quale verrà montato il nuovo ibrido è il collaudato DW12 prodotto da Dallara. Il motore con cui inizierà la stagione 2024 è il 2.2 litri V6 bi-turbo prodotto da Chevrolet e da Honda. Bene, sappiate che questa configurazione risale al 2012. È vero che negli anni sono state apportate modifiche, ma è altrettanto vero che il concetto è rimasto quello. Alcuni alleggerimenti sono già stati realizzati in previsione dell’installazione del nuovo ibrido e, pertanto, si prevede un sensibile abbassamento dei tempi sul giro anche con i motori attuali.
A questo proposito, la situazione inerente ai motoristi non è affatto consolidata o stabile. Se Chevrolet riuscisse a entrare in Formula 1 con il marchio GM Cadillac (Andretti non si è affatto arreso, ne riparleremo – NDR), infatti, la sensazione è quella che abbandonerebbe immediatamente le gare americane per concentrarsi sull’impegno nella massima categoria. Pensare che Honda da sola possa riuscire a fornire motori per tutti i team è pura utopia, senza contare che i giapponesi ci hanno abituato a entrate e uscite nelle varie categorie senza il minimo preavviso.
Se c’è una cosa che abbiamo tutti imparato grazie alla Formula 1, è che senza una situazione stabile e programmata a lungo termine, nessun costruttore è portato a investire. Servono garanzie, servono riunioni e riunioni interminabili. Ed è proprio la mancanza di programmazione a rappresentare un forte punto di domanda per la IndyCar. Le mie perplessità sono condivise anche dall’autorevole The Race Indycar Podcast e da piloti come J.R. Hildebrand, il quale ha dato un punto di vista molto interessante sulla mole di costi che un costruttore deve affrontare anche solo per progettare e produrre un singolo pistone, figurarsi un intero motore.
Non dimentichiamoci che tra la delibera sullo studio di un nuovo telaio e l’effettiva produzione passano circa tre anni, e siamo a un punto in cui non è nemmeno stata presa la decisione di fare un nuovo chassis per le monoposto della IndyCar. Questo non vuol dire che la categoria non abbia apportato alcuna innovazione, anzi: rispetto alla Formula 1 stessa, infatti, i camion utilizzano bio diesel, molti veicoli di servizio sono elettrici e Firestone ha creato il pneumatico Firehawk con carcassa in Guayule, una gomma naturale che si estrae da un arbusto che è perfettamente coltivabile in filari.
Siamo al paradosso: una categoria prestigiosa come la IndyCar, concettualmente all’avanguardia su alcuni aspetti, ma afflitta da un cronico immobilismo e mancanza di programmazione su altri. Già in pre pandemia il circus era sull’orlo del baratro, salvo poi dove ringraziare Roger Penske che ha deciso di acquistare sia la Speedway che la Indy, ma dopo questo abile colpo imprenditoriale non è successo altro. Negli sport motoristici e in questa particolare congiuntura economica, navigare a quota periscopio vivendo alla giornata è la scelta peggiore che si possa fare.
Un ulteriore elemento a sfavore di un futuro chiaro, è rappresentato dalla scelta di adottare motori ibridi a super-condensatori e non a batterie, per evitare di appesantire le vetture. Questo tipo di soluzioni non ha un reale impiego a livello automotive, pertanto i costruttori non hanno alcun interesse a investire denaro per non avere un ritorno da destinare alla produzione stradale. Oltre a questo, mettersi a studiare un motore da inserire su un telaio vecchio di anni, col rischio che poi ne venga deliberato uno nuovo, è svantaggioso. I costi di progettazione e produzione sono stellari e le aziende sono molto più attente alle spese rispetto al passato.
L’unica cosa certa è che la IndyCar deve cambiare, e deve farlo per salvarsi. Il concetto alla base del motorsport a stelle e strisce è tanto bello quanto romantico: non si bada molto all’aspetto tecnico come accade in Formula 1, perché al centro delle storie ci sono i piloti con le loro imprese. Ma per poter continuare a scrivere la storia, occorre avere le auto. E senza pensare al futuro, le categorie non sopravvivono. Monoliti come il WEC o il DTM hanno avuto il coraggio di rinnovarsi per non sparire e, attualmente, sono tornate ad essere categorie di assoluto rilievo nel motorsport. Adesso, inevitabilmente, tocca alla Indy.
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— Andretti INDYCAR & INDY NXT (@AndrettiIndy) March 4, 2024