F1 | Lotus: the black beauty

Continua la nostra collana dedicata ai team inglesi con il terzo appuntamento. L’editoriale di oggi è dedicato alla Lotus, definita come l’antitesi della Ferrari.

| di Federico Sandoli 

Negli anni 60 fece la sua apparizione nel mondo delle corse una scuderia che avrebbe scritto pagine leggendarie nel corso della sua attività: la Lotus.


Fondata da Colin Chapman – che verrà poi definito come “il Ferrari d’Inghilterra” – fin dai sui esordi la Lotus si caratterizzò per una sofisticata aerodinamica volta a bypassare la scarsa potenza del motore.


Questa continua ricerca ed esasperazione sul fronte telaistico non solo diede vita a una scuderia di macchine da corsa ma anche una fabbrica di automobili che nel tempo riuscì a produrre macchine di rara bellezza che vennero addirittura scelte per i film di 007.

 

Come scrivevamo, Chapman capì quasi subito che per contrastare la potenza della Ferrari l’unico modo era di rivoluzionare le monoposto. Finalmente, dopo diversi studi, concepì una macchina rivoluzionaria per quei tempi: la Lotus 25. Questa monoposto era caratterizzata da una inedita posizione di guida che vedeva il pilota assumere una posizione quasi sdraiata ed ebbe in Jim Clark il suo perfetto interprete.

 


Il binomio Clark-Lotus ha acceso gli animi per generazioni, scrivendo pagine memorabili della storia del motorsport. Purtroppo, nel 1968, durante una gara di F2, lo scozzese volante trovò la morte – ad Hockenheim – proprio alla guida di una Lotus, la macchina che lo portò al successo e lo resa leggenda.

 

 

Chapman ne uscì affranto e sconvolto ma non si arrese. La sua mente cominciò ad immaginare – ed in seguito a creare – una macchina che per il colore, la sigla e… la sua pericolosità, ha reso il marchio inglese famoso in tutto il mondo:  la Lotus 72.

 

Per creare questa macchina Chapman prese ispirazione dalla Lotus 56, dotandola però di un motore che fungeva da elemento portante e rendendola simile a – come diceva Ronnie Peterson – a “una freccia con le ruote”.


Ho visto correre la 72, la ricordo a Monza, bellissima nella sua livrea nera, un po’ ballerina nel posteriore, dote che esaltava le caratteristiche funamboliche proprio di Ronnie Peterson che, correggendo in controsterzo, si buttava sul rettilineo senza perdere velocità.

Purtroppo la 72 è anche la macchina che accompagnò Jochen Rindt nell’olimpo dei piloti. E successe proprio a Monza, quando un eccesso di foga portò il talentuoso austriaco ad impostare la famosa Parabolica troppo velocemente, finendo lungo, e rimanendo ucciso nella via di fuga forse non adeguatamente progettata.


L’ennesimo lutto sembrò frenare Chapman ma non il suo estro. Pochi anni dopo, quando ormai il ciclo della 72 era ormai arrivato al capolinea, Chapman cominciò a lavorare al progetto che cambiò per sempre il modo di concepire la macchina da corsa: la Lotus 79.

 

Sempre legato al marchio JPS, la cui livrea nera rendeva la Lotus unica per bellezza e grazia, la 79 presentava un inedito sistema che verrà poi chiamato “effetto suolo”.

Ferrari considerava il modello 79 illegale, mentre il suo entourage la considerava come la tecnicamente più significativa di quell’epoca. Chapman disegnò la vettura in modo da ottenere un effetto alare rovesciato che, unito alle bandelle laterali, chiamate minigonne (forse per omaggiare Mary Quant), creava una sorta di sigillo che portava la vettura a percorrere le curve a una velocità impensabile per l’epoca.

Andretti e Peterson non faticarono a monopolizzare la stagione. E proprio a Monza la supremazia della macchina consegnò il titolo ad Andretti e Peterson nelle mani del destino che lo accompagnò da Clark e Rindt.

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