Uno dei campioni del mondo di F1 più discussi di tutti i tempi è stato senz’altro Nelson Piquet. Irruento, testardo, a volte scorbutico ma nello stesso tempo simpaticamente goliardico. È la storia di un pilota vero.
| di Paolo Senni
Nelson Souto Mayor Piquet nasce a Rio de Janeiro il 17 agosto 1952, è l’ultimo figlio di Estácio Gonçalves Souto Mayor, medico pernambucano e ministro della sanità nel governo brasiliano, e di Clotilde Piquet una donna semplice ma solidamente legata alla famiglia.
Il giovane Nelson, cresce nella nuova capitale Brasilia, per via dell’attività politica del padre, facendosi notare già dall’ età di 12 anni come uno dei tennisti brasiliani junior più promettenti, in uno sport che non rappresentava ancora il punto di arrivo della sua fama, ma che trovava i favori della sua famiglia.
Nel 1966 infatti per permettergli di migliorare e proseguire la sua carriera nel tennis viene iscritto dal padre – a sua volta eccellente tennista – in uno dei migliori licei di San Francisco, in California.
Ben presto l’impegno sui campi da tennis, lascia il posto alla passione per i motori e dopo il suo ritorno in Brasile all’ età di 15 anni Piquet, in società con tre amici, acquista un go-kart iniziando a gareggiare sulle piste brasiliane nonostante la ferma disapprovazione del padre.
È proprio da questo atteggiamento paterno che deriva il suo pseudonimo di “Piket” (simile a Piquet che era il cognome da nubile di sua madre Clotilde), utilizzato per la registrazione alle gare ufficiali dei campionati di kart brasiliani, usato – come è sempre stato nel suo stile – quasi come una sfida per rendersi ufficialmente “invisibile” alla contrarietà della famiglia.
“Piket” raggiunge l’apice della sua scalata al mondo dei kart, nel 1971 e nel 1972 laureandosi per ben 2 anni di seguito campione brasiliano di kart e decide che quella è la sua vita, lasciandosi alle spalle le critiche dei familiari che non vedono di buon occhio quella che oramai è la sua professione.
Nelson è un ragazzo entusiasta che fa di tutto per rimanere nell’ambiente. Come tanti ragazzi brasiliani, in occasione del suo Gran Premio, si offre gratuitamente ai vari team offrendo i propri servizi: portare i panini, le bottiglie d’acqua, vigilare il materiale di notte, pulire i cerchi.
Si presenta anche al Team Brabham, dove Gordon Murray era già Direttore Tecnico. Anni dopo, insieme, avrebbero vinto due Campionati del Mondo e Murray più volte ha ricordato nelle sue interviste che gli permise di pulire il casco di Carlos Reutemann il quale, resosi conto dell’infiltrato, lo liquidò in malo modo apostrofandolo con uno sgarbato “RAGAZZO, NON SAI NEMMENO PULIRE UN CASCO!”.
L’argentino dovrà ricordarsi in seguito di quella frase perché per ironia della sorte, Piquet vince il suo primo titolo mondiale nel 1981, battendo proprio Reutemann e togliendosi dunque un bel sassolino dalla scarpa.
Nonostante il volere dei genitori, Nelson continua a correre di nascosto, sempre con il nome di Piket, ma i continui successi locali non aiutano il suo segreto, costringendolo a dire ai suoi che vuole correre.
Suo padre, sempre fermamente contrario, si rifiuta di finanziarlo e insiste affinché si iscriva all’università negli Stati Uniti per studiare ingegneria e gestione, opponendosi con tutte le sue forze a quella attività che ritiene troppo pericolosa.
Nel 1974 i dissidi lasciano il posto al dramma familiare: Estácio, il padre di Nelson, muore lasciando al giovane “Souto Mayor-Piquet” le redini della sua vita. Nelson decide che onorerà la memoria del padre frequentando l’università, ma non abbandonerà la passione per la pista.
Nei primi anni della sua carriera le corse infatti devono competere con gli studi ed è solo nel 1976
che finalmente “lo Zingaro” vince il campionato brasiliano SuperVee nei veloci e pericolosi circuiti del Sud del Brasile.
Il giovane campione, per proseguire la propria carriera, chiede consiglio alla celebrità nazionale Emerson Fittipaldi, primo brasiliano campione del mondo di Formula 1 e su sua indicazione, nel 1977, decide di andare a correre in Europa. Qui si trasferisce in Italia, a Novara, e partecipa all’ europeo di Formula 3, vincendo due gare e arrivando terzo nella classifica finale.
È un anno trascorso quasi da hippy, senza un soldo, dormendo spesso nel camion adibito al trasporto vetture, quando una telefonata in Brasile diventa un lusso, e i giorni tra una corsa e l’altra trascorrono tra illusioni sul futuro e la nostalgia per il suo paese. Questo legherà molto Nelson all’ Italia. E’ qui che nasce il suo soprannome: “Lo Zingaro”
Nel 1978 passa alla F3 inglese, suddivisa in due campionati la cui titolazione era data dalle differenti sponsorizzazioni; Piquet si aggiudica il campionato British Petroleum e arriva secondo nel Vandervell.
La Formula 3 inglese di quell’ anno, è una serie caratterizzata da un duello quasi feroce con Derek Warwick ma soprattutto con un connazionale di Piquet, Chico Serra, già suo mediocre avversario nella formula Super Vee Brasiliana.
La rivalità in Brasile tra Serra e Piquet era stata tremenda. Serra aveva una madre potentissima, che per il figlio aveva pianificato una Carriera da Campione, manipolando giornali e televisioni, oltre che facendo convergere su di lui i budget di molte aziende brasiliane.
Piquet non aveva nulla di tutto ciò, nonostante avesse già un anno di esperienza in Formula 3 avendo corso l’anno prima nella Serie Italiana con una vettura gestita da Ferdinando Ravarotto. Era però infinitamente più abile al volante di Serra e proprio per questo in quella stagione 1978 arrivò inaspettatamente anche il suo debutto in Formula 1.
Venne chiamato infatti da Mo Nunn, team manager della Ensign-Ford, a guidare una N177MN in occasione del Gran Premio di Germania, grazie alla Tissot uno degli sponsor acquisiti negli anni della F3 inglese.La prima gara della sua carriera nella massima serie non fu delle più fortunate: partito dal 21° posto in griglia fu costretto al ritiro dopo 31 giri per la rottura del motore. Fu la sua prima e unica corsa con la Ensign.
La McLaren, notata la stoffa del brasiliano nel campionato di F3 ed avendolo sottoposto ad una sessione di test, attraverso la BS Fabrications (suo team cliente) lo richiamò per fargli correre qualche gara con una vecchia M23. Piquet si ritirò in Austria e Olanda, ma in Italia finì nono convincendo Bernie Ecclestone a schierare per lui la terza Brabham – Alfa Romeo al GP del Canada.
Tutto si svolse durante il fine settimana di Monza, dove la F1 respirava aria di “mercato” essendo il Gran Premio d’Italia, il momento esatto per definire accordi squadre e trattative. Quel venerdì mentre Piquet in pista cercava di guadagnarsi un posto in griglia con la sua vecchia McLaren-Ford, Elio de Angelis si incontrava con Bernie Ecclestone. Il romano era, insieme a Piquet e ad altri, una delle novità più promettenti della F1; correva in Formula 2 e aveva rifiutato ben due sedili per il Gran Premio di Monza perché si trattava di vetture non abbastanza competitive.
Ecclestone avvertì De Angelis che c’era la possibilità di correre a Montréal con la Brabham-Alfa disputando il Campionato del 1979 al fianco di Niki Lauda e l’accordo venne definito in tutti i dettagli. Quel Venerdì sera De Angelis era sicuro di correre alla Brabham ma Domenica mattina la situazione, era già cambiata. Il viso di Elio, parlando con il suo manager, si era fatto scuro: “Pare che quel Piquet abbia offerto una montagna di soldi, forse corre lui”.
Di soldi Piquet ne portò, ma non erano una montagna. Venivano dalla birra Brahma, che in passato aveva appoggiato anche il connazionale di Piquet, Carlos Pace. Ecclestone in realtà aveva scelto Piquet per due motivi: primo perché aveva capito al volo il suo talento, sapendo che era molto veloce e non commetteva quasi mai errori, secondo perché accettò di legarsi al team Brabham per tre anni, praticamente senza ingaggio ma accontentandosi solo di una minima percentuale sui premi.
Piquet in Canada si classificò 14° ed Ecclestone, fiducioso nelle capacità del brasiliano, decise di schierare la sua Brabham alla Race of Champions 1979, una gara di Formula 1 non valida per il campionato del mondo, disputata quell’anno sul Circuito di Brands Hatch nel Regno Unito, per prepararlo ancora meglio allo scontro con altri piloti di F1.
Alla gara infatti partecipavano vetture di Formula Aurora (che in realtà erano vecchie auto di F1 dei campionati precedenti) e piloti che militavano nella massima formula. Vinse un nome leggendario: Gilles Villeneuve su una Ferrari 312T3 dell’anno precedente ed al secondo posto si classificò Nelson Piquet con la Brabham BT44.
Fu la conferma che Ecclestone aspettava: l’anno successivo avrebbe schierato Piquet come numero due al fianco di Niki Lauda sulla Brabham, che nel frattempo aveva deciso di abbandonare i motori Alfa-Romeo tornando ad adottare l’otto cilindri DFV Cosworth una decisione maturata nell’ottica della trasformazione della squadra italiana da fornitore di motori a vera e propria scuderia.
Ed in tutto questo a risentirne fu l’affidabilità della vettura inglese, che quell’anno non permise a Piquet di andare oltre un quarto posto al Gran Premio d’Olanda. Ma la fortuna era comunque dalla parte di Nelson. Nel corso delle prove del Gran Premio del Canada, infatti, uno scontento Lauda decise di ritirarsi dalle corse (tornando solo in seguito alla guida della McLaren nel 1982), lasciando a Piquet l’occasione di diventare il pilota di punta della squadra.
La strada di Nelson cominciò a delinearsi chiaramente quando, nelle ultime due gare della stagione, la Brabham si schierò con la nuova vettura a motore Cosworth e nella gara conclusiva, il Gran Premio degli Stati Uniti-Est, Piquet partì in prima fila e conquistò il giro più veloce in gara.
In meno di un anno Piquet aveva assorbito da Lauda tutto quello che c’era da apprendere in termini di gestione gara, analisi meccanica, capacità di concentrazione e approccio con la squadra, diventando una forza da non sottovalutare e guadagnandosi in pista il rispetto dei colleghi.
Nel 1980 arrivarono i primi risultati positivi ed il brasiliano, mostrando al grande pubblico le sue capacità di guida, il 30 marzo di quell’anno vinse la prima corsa della sua carriera in occasione del Gran Premio degli Stati Uniti-Ovest a Long Beach. Quello stesso anno altri due successi arrivati a Zandvoort (Olanda) e ad Imola, sommati ad una serie di buoni piazzamenti a punti, proiettarono Piquet direttamente ai primi posti della classifica mondiale, in lotta per il mondiale.
In pista però dopo un acceso confronto prevalse Alan Jones, su una Williams quell’anno imbattibile, che vincendo le ultime due gare divenne meritatamente campione del mondo.
Il 1981, come l’anno precedente, ripropose la lotta tra Brabham e Williams in un campionato particolarmente equilibrato che mise in luce una delle doti migliori di Piquet: l’intelligenza di gara. Nelson capiva sempre quando era il caso di spingere e quando, invece, era meglio togliere il piede ed accontentarsi della posizione senza correre rischi.
Questo gli permise di conquistare il mondiale 1981, con una grande rimonta che cominciò con la vittoria al Gran Premio di Germania, sfruttando con abilità anche le difficoltà psicologiche di Reutemann osteggiato all’interno del team Williams dove si preferiva che a vincere fosse l’australiano Jones.
Il brasiliano arrivò all’ ultima gara della stagione, il Gran Premio che si svolgeva nel parcheggio del Caesars Palace a Las Vegas ad un punto dietro Reutemann. Piquet giunge quinto in quella corsa, ottenendo i 2 punti necessari per la conquista del titolo, mentre il rivale argentino (che forse anche per la delusione lascerà di lì a poco l’automobilismo), chiuse solo ottavo a causa di problemi alle gomme. L’ormai maturo Nelson, abile nello sfruttare la rivalità tra i piloti Williams, con tre vittorie ed una serie di piazzamenti si laurea per la prima volta Campione del Mondo di Formula 1.
Il 1982 è per Piquet un anno di transizione che, dopo l’avvicendamento dei motori Cosworth con i motori BMW alla Brabham, non permette al campione brasiliano di esprimere nuovamente il suo stile di guida così come era stato l’anno precedente. Quell’anno il suo campionato viene ricordato soltanto per uno dei gesti più eclatanti nella storia della F1, il suo assalto in pista ripreso dalla TV ai danni di Eliseo Salazar, dopo che il pilota cileno lo buttò fuori pista mentre era primo al Gran Premio di Germania. Finisce undicesimo in classifica, ma nonostante questo getta le basi per il suo secondo titolo, conquistato nel campionato successivo, sviluppando il motore BMW che con la sua enorme potenza lo condurrà alla vittoria.
Nel 1983 la casa tedesca infatti mette a disposizione della Brabham, un motore quattro cilindri turbo capace di raggiungere quasi 1000 HP al banco prova e Nelson ha a disposizione la vettura più potente ma anche la più difficile da guidare. In particolare, la Bmw, allestisce in ogni Gran Premio una apposita unità che viene montata dopo le prove libere del sabato. È la “cosa” più potente che si sia mai vista su una Formula 1, progettata per durare solo pochi giri, con l’unico obiettivo di conquistare la Pole Position.
Per guidare al meglio quel mostro è necessario, oltre ad un grandissimo talento nella guida, possedere una facoltà di concentrazione superiore a quella degli altri, quasi una sorta di “religiosità”; forse è per questo che dieci minuti prima di salire in macchina, lo sguardo di Piquet cambia, abbandonando l’abituale atteggiamento scanzonato e diventando quasi ossessivo.
Nonostante il mezzo meccanico però, anche in questo campionato, Piquet non è il dominatore incontrastato rimanendo, dopo la vittoria iniziale in Brasile – e per gran parte della stagione – , fuori dai giochi per il mondiale mentre Alain Prost con la Williams e Renè Arnoux con la Ferrari continuano a darsi battaglia in pista a suon di vittorie.
Nelson è costante, e com’è nel suo stile, controlla la situazione e porta a casa punti importanti. E’ solo a tre gare dal termine che il brasiliano, assesta la zampata che contraddistingue da sempre la sua strategia di vittoria, con i due successi di Monza e Brands Hatch ed il podio in Sudafrica (dove Prost non prese punti), assicurandosi così il secondo titolo mondiale.
Le due stagioni successive sono appannaggio della McLaren-Porsche di Niki Lauda, che permetterà a Piquet ed alla sua Brabham di conquistare solo tre vittorie in 32 gran premi.
La sua squadra sembra ormai in fase discendente, non permettendogli più di raggiungere i risultati ai quali ha sempre aspirato. Alla Brabham Piquet ha trascorso sette anni, dando il meglio di sé ma il grande sodalizio con la squadra inglese, che gli è valso due titoli mondiali, sembra ormai giunto al capolinea. Piquet progetta il trasferimento in una team in grado di poterlo riportare ai massimi vertici, tentando prima di prendere contatti con la McLaren ed accasandosi infine nel 1986 con un contratto biennale alla Williams, in grande crescita sin dalla fine del 1985.
La Williams si rivela per Nelson un posto difficile in cui stare. Gli accordi precedentemente stabiliti con Frank Williams avrebbero dovuto assicurargli un posto di prima guida all’ interno del team, ma a seguito del grave incidente che coinvolse il costruttore inglese le redini della squadra passarono nelle mani del direttore tecnico e socio di Williams, Patrick Head.
Head, un tecnico particolarmente severo con i piloti, colpito dalla velocità del compagno di squadra di Piquet – Nigel Mansell – privilegiò l’inglese curando personalmente la messa a punto della sua macchina e lasciando Piquet all’ assistenza del secondo tecnico del team Frank Dernie, nonostante il brasiliano fosse primo pilota per contratto e disponesse di diritto del muletto.
La stagione di Piquet si rivelò in tal modo particolarmente complicata, nonostante sia stata quella in cui il brasiliano segnò alcune tra le più belle pagine della Formula 1 moderna. Tra queste va ricordato senz’altro uno dei sorpassi più esaltanti della storia di questo sport: quello del Gran Premio di Ungheria.
Piquet dopo aver condotto l’intera gara alle spalle di Senna, entrando al tornante dell’ Hungaroring, in condizione sfavorevole, sorpassò controsterzando al limite uno sbalordito ed impotente Ayrton Senna, tenendo poi la posizione e assicurandosi la vittoria. L’ex-campione del mondo Jackie Stewart sottolineò il gesto sportivo di Piquet commentando: “È stato come fare un looping con un Boeing 747”.
Piquet e Mansell continuarono a dividersi le vittorie per tutta la stagione togliendosi punti l’uno con l’altro, mentre Prost – con una McLaren sicuramente inferiore – si dimostrò bravo portare a casa sempre il massimo risultato possibile. Arrivati alla gara di chiusura in Australia, Mansell vantava 5 vittorie contro le 4 di Piquet e Prost e con 7 punti di vantaggio sul francese e 9 sul brasiliano era praticamente ad un passo dal titolo.
In pista però Mansell, che stava amministrando un più che sufficiente terzo posto, dovette ritirarsi per lo scoppio di una gomma lasciando gara e titolo mondiale ad un incredulo Prost dopo che Piquet, giunto terzo in classifica, aveva perso la testa della corsa per un necessario cambio gomme.
Il 1986 aveva assestato un brutto colpo alla scuderia di Frank Williams ed aveva tolto il sorriso dal volto di Piquet, che oltre a sentirsi beffato da Prost, si sentì anche tradito dalla propria squadra vedendosi preferire Mansell, un pilota che riteneva non meno veloce quanto meno intelligente di lui. (Dopo un solo mese di test in Brasile, Piquet aveva ribattezzato Mansell “Otario” che nella sua lingua vuole dire più o meno “sempliciotto, sprovveduto”)
Ma Nelson nonostante tutto, rimane anche l’anno successivo, il 1987, una stagione che segnerà in maniera indelebile anche il suo modo di guidare oltre che il suo approccio al mondo delle corse.
Tutto accadde durante le prove del Gran Premio di San Marino ad Imola, il 2 Maggio, quando il brasiliano uscì di pista nel punto più pericoloso del tracciato, alla famigerata curva del Tamburello a 280 Km/h: l’impatto fu violentissimo e la sagoma della sua vettura rimase per diverso tempo stampata sul muretto all’esterno del tristemente celebre curvone.
Nelson, costretto a saltare la gara per precauzione, ne era uscito praticamente illeso, ma quell’incidente lo segnò profondamente dal punto di vista psicologico, lasciando in lui strascichi che gli impedirono di proseguire in modo regolare la stagione, nonostante la Williams fosse ancora di gran lunga la vettura più competitiva del circus.
Piquet vinse solo tre Gran Premi quell’anno (Germania, Ungheria e Italia), rimanendo quasi sempre alle spalle del compagno di squadra nelle altre occasioni: ma qualcosa doveva ancora accadere.
La lotta con l’inglese si chiuse al penultimo Gran Premio in Giappone, dove Mansell fu protagonista di un incidente durante le prove, che gli impedì la partecipazione agli ultimi due gran premi. Piquet, che era già in vantaggio e a cui sarebbe bastato un mancato arrivo di Mansell per vincere il campionato, ottenne così il terzo titolo di campione del mondo.
In quei due anni Nelson era invecchiato molto di più che negli anni precedenti, non si fidava più di nessuno, sorrideva sempre di meno e soprattutto era rimasto segnato da un incidente che lo aveva cambiato per sempre. E’ proprio per questo che nel 1988 con il titolo in mano decide di risolvere il profondo conflitto con la Williams (e soprattutto con Nigel Mansell e Patrick Head) cercando nuovi stimoli alla Lotus con un contratto biennale tra i più pagati di quegli anni.
“Vado a sistemare la macchina che Senna non è mai riuscito a mettere a posto” – dichiara Nelson con tono polemico verso il connazionale mai molto stimato, pronunciando parole che si perderanno nelle difficoltà di due stagioni in Lotus molto complicate.
E mentre Piquet lottava con i problemi di una scuderia ormai destinata al declino il grande Ayrton Senna dominava e vinceva suoi due primi titoli mondiali con la McLaren. Nella Stagione 1989 divenne un fatto quasi normale vedere “Lo Zingaro” lottare nelle retrovie. Il miglior risultato fu un quarto posto a Imola mentre a Spa-Francorchamps subì l’onta della mancata qualifica insieme al compagno di Squadra Satoru Nakajima. Sicuramente il motore Judd V8 non era competitivo, ma vedere un tre volte Campione del Mondo lottare con l’Osella, la Minardi o la Larrousse, sapeva di decadenza.
Era “la Parabola del Campione”, come usava dire Enzo Ferrari, una parabola alla quale però Nelson non voleva abituarsi. Fu così che nel 1990 stanco di una Lotus oramai ridotta ad ombra di sé stessa decise di intraprendere una nuova avventura con la Benetton di Flavio Briatore, al quale era stato profondamente raccomandato da Bernie Ecclestone.
Il fatto che nelle stagioni precedenti prendesse numerosi milioni di dollari di ingaggio, e questa
volta si fosse accontentato di meno di uno, contribuì in Briatore a far maturare la convinzione di essere diventato improvvisamente la volpe della Formula 1. Il contratto di Piquet alla Benetton fu stabilito in base ai punteggi in gara ottenuti dal pilota brasiliano. In due anni alla Benetton Piquet vinse tre Gran Premi, un risultato mai ottenuto in precedenza dalla scuderia anglo-trevigiana.
Ma la Formula 1 stava cambiando ancora, non era più quell’ambiente di goliardia e scherzi che piaceva a Nelson. Per Piquet non fu poi un dramma rimanere senza un volante nel 1992: si sarebbe preso una pausa. Lo aveva fatto Lauda, poteva farlo anche lui.
Decise così, dopo essersi ritirato dalla F1, di partecipare alla 500 Miglia di Indianapolis con la monoposto Lola del team Menard, motorizzata Buick. Sapeva di non poter vincere, ma sapeva anche che una pole-position avrebbe zittito tanta gente che lo vedeva finito e gli avrebbe potuto riaprire le porte della F1.
Purtroppo non andò così. Durante le prove Piquet perse il controllo della vettura e sbatté violentemente contro i famigerati muretti di cemento di Indianapolis, subendo ferite molto gravi alle gambe. Furono necessari diversi mesi e diversi interventi prima del completo recupero e il brasiliano ritentò l’avventura a Indianapolis già la stagione successiva.
In quell’occasione andò meglio, si qualificò tredicesimo e rimase in pista per diversi giri prima di
dover abbandonare la gara americana per problemi alla vettura, quando si trovava in ottava posizione.
La pista non era più per lui e nel settembre 1994 annunciò il suo ritiro definitivo dalle corse, partecipando in seguito solo ad alcune classiche dell’automobilismo per il piacere della guida e della competizione.
Nel 2006, ormai cinquantatreenne, tornò in gara alla Mil Milhas Brasil sul circuito di Interlagos, per poter condividere una competizione con suo figlio Nelson Angelo (Nelsinho) che era agli inizi della carriera.
Su una Aston Martin DBR9, volle correre per 45 minuti in quella gara di durata (contro le tre ore di ciascuno dei copiloti) solo per condividere la gioia di vincere la competizione accanto al figlio. Alla fine della gara dichiarerà sorridente sul podio “Ora basta, la cosa non è più per me, non è più come prima”. È la degna conclusione della carriera di un grande campione dell’ automobilismo sportivo.
Oggi Nelson Piquet è un tranquillo e stimato uomo d’affari. Passa la maggior parte del suo tempo a Brasilia, la città creata da Niemayer senza semafori, dove ha molti interessi commerciali con l’Autotrac, una società che produce antifurti satellitari in Sudamerica.
Per la F1, rappresenta ancora uno dei più ammirevoli esempi di schiettezza, grinta, furbizia e astuzia che in un panorama automobilistico dominato da un “gentleman agreement” totalmente artificiale potrebbe sicuramente dare nuova linfa. I suoi scherzi terribili, le battute caustiche rivolte ai colleghi, la sua fama da “tombeur de femme” forse oggi faticherebbero a trovare posto a fianco del “politicamente corretto” comportamento dei moderni cavalieri del rischio, ma forse ridarebbero colore ad una Formula 1 sbiadita, che cerca in tutti i modi di riacquistare popolarità.
Quella stessa popolarità che solo i grandi campioni come Nelson possono donare ad uno sport dove la passione avvicina il pubblico al pilota, in una girandola che coinvolge e diverte allo stesso tempo facendo scoprire anche il lato più umano del Grande Campione.