Il Gran Premio d’Austria ha evidenziato ancora una volta la fragilità mentale di un pilota che è, ad oggi, la brutta copia sbiadita di quello ammirato in Red Bull nell’epoca degli scarichi soffiati. La perfetta sintesi del Sebastian Vettel attuale, è racchiusa in quella camminata con il casco in testa dopo l’eliminazione nel Q2. Un pilota solo, sfiduciato, in preda ai suoi pensieri.
La situazione interna al team è, come prevedibile, disastrosa: il linguaggio del corpo non mente mai, al netto delle solite quattro o cinque frasi di circostanza che gli addetti ai lavori sono costretti per contratto a mettere insieme, c’è sfiducia e si ha la netta impressione che si stia già pensando a tutt’altro. Nuove componenti? Chissà, forse settimana prossima, forse in Ungheria.
In un contesto simile, sarebbe difficile per chiunque riuscire a chiudere la visiera e correre sul filo del centesimo alla ricerca del miglior tempo possibile, figuriamoci per un pilota che ha lasciato ogni sua certezza contro le barriere del Motodrom di Hockenheim nel 2018. Da quel momento tra Vettel e la Ferrari qualcosa si è irrimediabilmente incrinato, quello che doveva essere l’erede dei successi di Michael Schumacher è diventato via via un peso, un corpo estraneo. Sono bastate due gare a Leclerc per cancellarlo definitivamente dal box, fino all’epilogo del mancato rinnovo “causa Covid-19”. “Ci dispiace Sebastian, il coronavirus è stata una mazzata, siamo la Ferrari ma tu costi troppo, scusaci, è stato bello”. Sembra di leggere quei romanzetti di quarta categoria o quelle pattumiere da libreria stile “10 frasi per lasciare il tuo partner senza sembrare uno stronzo”.
Al netto dei risultati sportivi, che sono comunque la sola cosa che contano nel motorsport, stiamo assistendo al dramma umano di un ragazzo che, evidentemente, vorrebbe essere ovunque tranne che nell’abitacolo della Ferrari numero 5. “È andata bene che mi sono girato una volta sola”, il commento del post gara. Prima del testacoda, una lenta agonia fatta di continue correzioni, inserimenti in curva per nulla fluidi e dialoghi fitti col suo ingegnere di macchina per trovare da qualche parte un briciolo di potenza in più che potesse permettergli di passare una Williams sul dritto -sì, una Williams, una monoposto che l’anno prima evitava di fare tutti i turni di prove per mancanza di pezzi di ricambio-
A speculare sui drammi ci pensano già in molti, troppi, la storia insegna che alle masse piacciono le esecuzioni in piazza, tutti vestiti a festa per un’impiccagione o una ghigliottinata, nessuno è immune, nessuno è al sicuro specialmente se indossa quella tuta.
La storia del motorsport però insegna anche che basti una vite o un bullone al momento giusto, per cambiare completamente il feeling tra pilota e mezzo meccanico. Il problema è che non tutte le viti o i bulloni sono di metallo, titanio, ergal o quel che volete, alcune di questi viti sono invisibili e sono dentro di noi. Maestro è chi, col cacciavite in mano, riesce a trovarli e a girarli di quel quarto di giro che basta per trasformare una curva pericolosa nel perfetto teatro di un poster d’annata. Distruggere è facile, ricostruire e migliorare è molto meno facile, scommettere quando nessuno scommetterebbe una rondella bucata è per pochi, molto pochi.
Un pilota che ha comunque vinto quattro mondiali, non può finire a fare il protagonista di meme o barzellette come un qualsiasi onesto autista da metà schieramento. Non può e non deve, perché non è umanamente giusto. Fatti forza Sebastian, ma non ripartire da Hockenheim 2018, riparti da quel venerdì di prove libere in Turchia. All’epoca non guidavi ancora l’astronave Red Bull, ma una modesta BMW Sauber, solo che non lo sapevi e hai messo tutti in fila.