Nel Campionato di F1 1982, sono ancora pochi i motori turbo, ma la 126-C2 sarà un auto che nel bene e nel male farà la storia.
| di Paolo Senni
Nel 1982 l’era dei motori aspirati lasciava ancora poco spazio ai turbo – introdotti dalla Renault qualche anno prima – che avrebbero poi segnato in maniera definitiva la F1.
La Ferrari, in quel contesto, dopo l’avventura a fasi alterne con la 126-CK del 1981, che regalò alla scuderia modenese due delle più belle vittorie della sua storia (Monaco e Spagna), decise di continuare quella che era stata la filosofia di progetto dell’anno precedente.
Il motore Turbo era il futuro. E insieme a Renault e Toleman la Ferrari ne aveva completamente abbracciato la filosofia, con il suo V6 con un angolo tra le bancate di 120 °, 1500 cc sovralimentato da Turbine KKK.
In particolare quello della Ferrari era stato ulteriormente perfezionato rispetto a quello dell’anno precedente, sia nell’affidabilità che nella potenza (580 HP ad 11000 giri). Rimaneva l’endemico problema della rigidità torsionale del telaio Ferrari, assemblato in traliccio di tubi con pannelli di alluminio rivettati.
Questa tecnica costruttiva, introdotta dalla McLaren M26 nel 1976, aveva assicurato buoni successi alle auto che ne avevano fatto uso ma era stata abbandonata nel 1981 perché inadatta alle enormi potenze sprigionate dai motori sovralimentati ed alle sollecitazioni indotte dall’effetto suolo che in quegli anni dominava l’aerodinamica delle F1.
La stessa McLaren aveva infatti realizzato per la sua monoposto una monoscocca in fibra di carbonio (quella stessa monoscocca che ancora oggi viene utilizzata nella costruzione delle F1) più leggera e resistente che assicurava oltre a questo una migliore resistenza agli urti, per l’incolumità dei piloti.
Ma a Maranello non si disponeva di un “autoclave” (l’apparecchiatura necessaria alla realizzazione delle strutture in fibra di carbonio) idoneo alla costruzione, né di un progettista che potesse mettere a punto la realizzazione dell’innovativo sistema costruttivo (la McLaren annoverava tra i suoi il “Mago” John Barnard).
Si decise così di affidare la costruzione del nuovo telaio ad un altro dotatissimo tecnico di quegli anni Harvey Postlethwaite (già progettista di Wolf e Tyrrell), che per sopperire alle mancanze tecnico-organizzative della Scuderia di Maranello, applicò una soluzione costruttiva che anni prima aveva progettato per la Wolf: un telaio in ”honeycomb” (nido d’ape) di kevlar, con pannelli di alluminio incollati mediante adesivo strutturale.
Era, per così dire, “una via di mezzo” tra la monoscocca McLaren ed il vecchio telaio Ferrari, ma assicurava comunque alla 126-C2 una buona rigidità torsionale ed una leggerezza che permettevano decisi miglioramenti rispetto all’auto dell’anno precedente, abbastanza “scorbutica”, dalla quale solo il talento di Gilles Villeneuve seppe trarre due stupende vittorie.
Questa Ferrari invece si dimostrò fin da subito maneggevole e facile da guidare, consentendo ad entrambi i piloti (sempre Gilles Villeneuve affiancato dal francese Didier Pironi) di esprimersi al massimo evidenziando per ambedue, quello che era il loro stile di guida.
Il genio di Mauro Forghieri aggiunse a quel motore già di per sé potente, un ulteriore miglioramento in termini di potenza, con l’introduzione di un sistema direttamente prelevato dai motori aeronautici (un serbatoio di idee spesso utilizzato dal tecnico modenese): l’iniezione di acqua nella miscela in ingresso delle camere di combustione.
L’Ingegnere di Maranello racconta in un suo libro:
“Ripresi una tecnologia che era legata agli aerei da caccia Messerschmitt della seconda guerra mondiale: i piloti avevano a disposizione un bottone rosso che azionava un sistema che forniva maggiore potenza per alcuni secondi in caso di necessità. Il sistema consisteva nell’immissione di acqua che si mescolava alla miscela di alimentazione. Con l’effetto di migliorare la combustione, raffreddare la camera di scoppio e fornire una certa percentuale in più di potenza. Operazione molto delicata, perché un eccessivo raffreddamento porta all’immediato grippaggio dei pistoni”.

La 126-C2 era anche una macchina bella da vedere. Muso affusolato, linee molto più filanti rispetto a quelle dell’anno precedente, un’aerodinamica affinata con il lavoro alla galleria del vento Pininfarina che le conferiscono un aspetto raffinato. Quasi fosse un piccolo aereo senza ali.
La “C2” (così veniva abbreviato il suo nome dai tifosi) sempre attingendo dalla tecnologia aeronautica aveva esasperato “l’effetto suolo”, una tecnica aerodinamica che permetteva alla vettura di rimanere letteralmente incollata al terreno durante la percorrenza delle curve.
Il fondo della vettura ai lati del pilota, a seguito degli studi aerodinamici, aveva assunto a questo scopo un disegno ad ala rovesciata che permetteva all’aria di scorrere più velocemente al di sotto della vettura, creando un abbassamento della pressione dell’aria stessa ed un conseguente effetto “ventosa” assicurato dalla presenza di bandelle flessibili laterali (le cosiddette “minigonne” che nel caso della Ferrari erano in gomma con “pattini” in compensato marino) che ne assicuravano la perfetta aderenza al terreno.
Fu proprio l’interruzione improvvisa di questo effetto aerodinamico, a causa di un urto ruota a ruota con la March n. 17 del tedesco Jochen Mass, che l’8 maggio del 1982, esattamente 38 anni fa, causò l’incidente mortale del Mito Gilles Villeneuve, iconico pilota canadese dal talento cristallino, durante l’ultima sessione di prove del GP del Belgio a Zolder, ad 8 minuti dalla fine delle prove.
L’auto di Gilles toccando per una incomprensione di sorpasso, con la propria ruota anteriore quella posteriore di Mass si sollevò scollandosi letteralmente dal terreno, volando in aria e catapultando, con tutto il sedile, il pilota contro le barriere di sicurezza.
Era questo il grande limite delle auto ad effetto suolo: la perdita dell’effetto “ventosa” che ne assicurava la tenuta in pista. Un limite che porterà poi il compagno di squadra di Gilles, Didier Pironi, sabato 7 agosto dello stesso anno ad un gravissimo incidente durante le prove del Gran Premio di Germania dal quale uscirà vivo anche se in gravi condizioni.
La 126-C2, nonostante la terribile sorte dei suoi piloti, continuerà comunque la sua corsa, dimostrandosi una vettura versatile e notevolmente veloce, adattabile ai piloti che durante il resto del campionato si avvicenderanno alla guida (Patrick Tambay aveva sostituito il povero Villeneuve e venne sostituito a sua volta per problemi alla schiena dall’italo-americano Mario Andretti).
La monoposto, nonostante le vicissitudini vissute in quell’ “annus horribilis”, permetterà alla Ferrari di conquistare il Campionato Mondiale Costruttori di quell’anno ed a Didier Pironi (nonostante non avesse potuto disputare le ultime 5 gare) di conservare il secondo posto nel Campionato Mondiale Piloti a 5 punti di distacco dal vincitore Keke Rosberg.

La 126-C2 continuerà ad essere presente nel campionato dell’anno successivo, il 1983, fino al gran premio del Canada nella sua versione “C2B” adattata alle mutate norme regolamentari che nel frattempo avevano cancellato l’effetto suolo.
Trasformata in un auto completamente diversa, vincerà in quell’anno il Gran Premio di San Marino con Patrick Tambay e permetterà comunque (anche se in parte) alla Ferrari di conquistare il Campionato del Mondo costruttori del 1983.
La Ferrari 126-C2, ancora oggi, rimane indissolubilmente legata ad un numero significativo, quel 27 bianco su fondo rosso, che la rese l’icona della parabola di Gilles Villeneuve spezzata a metà da quel cavallo imbizzarrito che aveva disarcionato il cavaliere quel pomeriggio di maggio del 1982.