This is what you get, when you mess with us. Parole e musica di Tom Yorke, frontman dei Radiohead, anno 1997. Dubito la band britannica avesse in mente Mattia Binotto e gli dei del motorsport quando diede alla luce una delle sue hit più note. Spesso parole e musica corrono in soccorso di situazioni al limite del paradossale e ci aiutano, se non a comprendere, a venire a patti con la realtà.
di Filippo Toffanin
Partiamo da un presupposto: il teatrino andato in scena nelle prime fasi del GP di Russia non nuoce esclusivamente alla reputazione della Ferrari, ma alla credibilità stessa dell’intera categoria. I tanto vituperati social in questo caso tornano utili per farsi un’idea della vulgata. Volendo fare una statistica sommaria sono preponderanti commenti e post di sdegno nei confronti della Ferrari per aver chiesto al pilota più veloce di farsi da parte. Per aver compiuto poi il delitto ai box. E per aver assecondato le lamentele del giovane più lento e lamentoso, sempre a discapito della vittima sacrificale designata. Secondariamente ne esce peraltro rafforzata la figura di Vettel, l’antieroe sveviano di giornata – mentre Gastone Leclerc con la sua puntigliosa emancipazione dall’ingombrante figura del compagno inizia ad infastidire i più. Un qualcosa certamente meritevole di riflessione da parte del monegasco e del suo management, al netto della liceità di quanto preteso.
Sarà che in Russia viene più facile parlare di complotti, spionaggio e trame oscure – e magari qualcuno in Ferrari si è lasciato prendere la mano. Il problema di fondo nel valutare gli eventi di ieri resta: non sappiamo cosa si sono detti team principal e piloti prima della partenza. Non sappiamo se – come più o meno emerge – una delle due parti sia venuta meno al patto iniziale. E’ evidente che il buon Sebastian benefici della scia del Predestinato per mettersi al riparo dall’aggressione di Hamilton (per inciso: sarebbe anche ora di smetterla con appellativi sensazionalistici che stanno andando a detrimento di Charles, e diventando più ridondanti dell’ossessionante predilezione per il fucsia di certi urlatori di professione). Leclerc, che fa della difesa della posizione una delle sue armi vincenti, nemmeno abbozza un cambio di direzione. Segno che la manovra è studiata – brillantemente – a tavolino. Ma nel codice non scritto della pista, soprattutto tra compagni di squadra, la legge è sacra: io faccio un favore a te, tu uno a me. Risulta difficile non pensare che nell’eventualità più che concreta Sebastian fosse davanti alla prima staccata, fosse anche stabilito che il tedesco avrebbe dovuto lasciar strada al generoso scudiero.
Il dubbio è che la faina di Heppenheim si sia ricordata di un’altra scia, stavolta mancata – quella di Monza. E che abbia pensato di fare il bis di Singapore, alla guida di una monoposto finalmente più vicina al suo stile di guida. E’ altrettanto evidente che ieri abbiamo rivisto il Vettel dei tempi migliori. Quello della Red Bull, che quando era in testa alla prima curva non lo prendevi più. Il ritmo che il tedesco ha imposto al primo stint di gara è stato fenomenale: ben più efficace del suo compagno di squadra, sbaragliante nei confronti degli avversari. Forse troppo, tanto da mandare in crisi l’unita ibrida del propulsore della SF90. Il Karma, dicevamo: colpisce Vettel, colpevole di essere venuto meno ai patti. E viepiù colpisce Mattia Binotto reo, a mio modesto avviso, di non usare con il quattro volte campione del mondo lo stesso tono enfatico e perentorio utilizzato la settimana prima al termine della sarabanda di Singapore, quando intimava a Leclerc di andare a podio e gioire del risultato di squadra. Ecco allora che gli dei del motorsport confezionano la sanzione che non t’aspetti. La macchina del ribelle in panne fa scattare una VSC che regala la vittoria al terzo che gode, e come gode. Lewis Hamilton ringrazia, e alla sua maniera spinge, domina l’ultima parte di gara e vince riaffermando il vecchio adagio audentes fortuna iuvat, la fortuna aiuta gli audaci. This is what you get, when you mess with us. Tradotto: se tiri troppo la corda, si spezza.
Il post-gara tradisce una certa nebulosità dell’accordo pre-gara, tra interpretazioni non certo collimanti. Ricordando un altro celebre pasticcio rosso, quello di Monza 2018, quantomeno si è fatto un passo avanti: la strategia fino alla prima curva era chiara (a proposito, i soloni del “non si possono fare strategie in partenza” dove sono finiti?). Vien da pensare che forse sia più facile usare il pugno duro con un ragazzo di ventun anni che con un pluricampione di trentadue, peraltro separati da svariati zero nell’ingaggio annuale che Ferrari gli corrisponde. Personalmente lo trovo deprimente, e mi auguro le motivazioni siano altre. Ma tornando alla vulgata, il sospetto viene ed è più che lecito. Lo testimoniano i comportamenti, che andrebbero commisurati non solo da parte di chi guida. Si poteva tranquillamente evitare una simile gazzarra radiofonica, ben sapendo che lo scambio di posizioni si sarebbe potuto fare al pit senza grossi patemi. Negli sport di squadra si tende a consumare le beghe di spogliatoio negli spogliatoi per l’appunto, e non è mai un bel segnale quando i panni sporchi si lavano in piazza anziché in casa. Soprattutto, non ricordo squadre vincenti così deficitarie dal punto di vista comunicativo. Se queste sono le premesse, siamo sicuri che in Ferrari saranno in grado di tenere a bada due campioni (e i loro entourage), quand’anche come sembra nel 2020 avranno finalmente a disposizione una macchina da mondiale?
Ron Dennis si sarebbe certamente divertito. E forse qualcuno dovrebbe fargli una telefonata per un consiglio o due. D’altronde, si sa: una telefonata ti allunga la vita.
Filippo Toffanin