Vettel deve piantarla. E non mi riferisco a quelle piante per le quali “la pioggia va bene”. Sebastian semina, ma non raccoglie. Piuttosto getta alle ortiche occasioni, punti, credibilità. Tutto in modo inconcepibile e inaccettabile per chi punta ad un raccolto mondiale.
Vettel commette un errore. Copione già visto. Un errore che di per sé non sarebbe enorme, ma che diventa spropositato pensando a tutto quello che c’era in gioco. Quel dritto alla Sachs, dopo un bloccaggio (non il primo in questa gara) ha compromesso il suo gran premio di casa, la sua leadership, la sua credibilità. Se gli errori di Baku e di Le Castellet potevano ascriversi alla foga agonistica, o alla volontà innata di attaccare, il ritiro di Hochenheim non ammette scusanti. Una distrazione pesante, una frenata minimamente ritardata in condizioni di aderenza precaria e con gomme che iniziavano ad essere usurate. La voglia di allungare a tutti i costi su di un Hamilton che recuperava implacabilmente, giro dopo giro, grazie alla sua sensibilità di guida e alle freschissime mescole ultrasoft. Vettel forse non poteva e non doveva rientrare ai box per un cambio gomme, ma aveva l’obbligo di salvaguardare la prima posizione con un comportamento cauto e accorto, consapevole che quel pesante scroscio di pioggia sarebbe stato di breve durata. Si trattava di arginare.
La memoria galoppa e riporta alla mente le epiche immagini di 18 anni fa in cui Barrichello, nella vecchia e velocissima Hochenheim, ha regalato alla Ferrari una vittoria incredibile e folle, resistendo all’assalto delle frecce d’argento con le sue gomme da asciutto sotto il diluvio. Una vittoria illogica e irrazionale, tutta cuore e coraggio e che per questo resterà nella leggenda. Le lacrime bagnavano il volto del brasiliano più della pioggia copiosa che scendeva dal cielo e gli avversari lo festeggiavano come fosse il loro beniamino. E così Rubens è entrato nella storia.
Ecco, a Vettel non chiedevamo nulla di simile. Non serviva l’impresa. Bastavano solo il ragionamento, l’astuzia e un po’ di caparbietà. Perché la vittoria di ieri sarebbe stata carica di significato per svariati motivi. Anzitutto avrebbe potuto renderlo profeta in patria, proprio lui che “a casa sua”, anzi a 47 km da casa sua, non ha mai vinto. Inoltre, allungando su Hamilton, il tedesco si sarebbe procurato un discreto margine per affrontare la pausa estiva da leader indiscusso del mondiale, forte anche della prossima trasferta ungherese, che tradizionalmente vede la vettura di Maranello favorita. Non da ultimo un successo avrebbe consentito di dare una continuità al nuovo corso intrapreso dalla dirigenza Ferrari, iniziato proprio il giorno precedente con l’avvicendamento di John Elkann, a causa della triste circostanza che ha portato alla sostituzione di Sergio Marchionne.
Invece nulla di tutto ciò. La cronaca del gran premio di Germania ci propone un Vettel poco lucido, che non riesce a gestire la pressione di una grande rimonta da parte del rivale. Sebastian commette una leggerezza da principiante, che non rende giustizia al suo talento e alle sue ambizioni. Impatta contro le barriere davanti agli increduli sostenitori come fosse un debuttante qualunque e consegna la vittoria nelle mani di un Hamilton perfetto. Certo, l’usura delle gomme era notevole e forse la perdita di un pezzo di ala non ha aiutato la stabilità della vettura. Ma la grandezza di un pilota consiste anche nel capire i limiti del mezzo o della pista. E, se necessario, nell’accettare di fare un piccolo passo indietro.
Personalmente ho sempre difeso Sebastian fino ad ora, in nome dell’emozione, del sacro fuoco della competizione e della fame innata che la sua impulsività trasmetteva. Ora però deve invertire la rotta. Perché con una Ferrari così Vettel è obbligato a vincere, per tornare al vertice e per farci tornare al vertice. Per regalarsi il quinto mondiale e per regalarci un sogno.