Piloti americani in F1: e se Steiner avesse ragione?

Le parole del Team Principal della Haas hanno fatto scattare la levata di scudi delle principali scuderie d’Oltreoceano. Polemica inutile o c’è del vero? Possono i piloti americani cimentarsi con i colleghi europei senza alcun problema? 

Come saprete, quello del 2017 è stato una anno estremamente particolare per la massima serie automobilistica, con un dualismo di vertice che ha tenuto gli appassionati incerti fino a poche gare dal termine, al quale vanno aggiunte sia la novità in ambito tecnico sia l’avvento della nuova proprietà. Liberty Media infatti, ha trasformato una F1 troppo ingessata in una competizione a trazione americana, seppur la strada da percorrere in tal senso è ancora molto lunga, con immediate innovazioni pratiche, show nei centri delle città principali come intro al week-end canonico e volontà politiche in ottica futura, sia sul piano dei diritti Tv che sull’aspetto tecnologico e filosofico che la massima espressione del motorsport a quattro ruote dovrà ricoprire per i prossimi anni.

Tra le tante cose, Chase Carey e compagnia, vogliono dare una maggiore centralità agli Stati Uniti nella classe regina, tanto che si sta ipotizzando di inserire un maggior numero di Gran Premi nel paese a Stelle e Strisce, con l’idea non malsana di inserire addirittura un trittico di appuntamenti da risultare come una sorta di mini tour in un paese mai troppo rappresentato in F1. Se infatti i piloti americani non hanno mai avuto una grossa partecipazione in una competizione che storicamente è stata a maggior trazione europea, da qualche anno i colori d’Oltreoceano sono arrivati nel circus grazie al team Haas, sulle cui vetture c’è molta Italia, viste le profonde partnership con Dallara e Ferrari. A questo punto, un driver americano in pianta stabile sarebbe ben visto dalla nuova proprietà e il team guidato da Steiner potrebbe essere un buon trampolino di lancio, ma a quanto pare c’è più di qualche intoppo, almeno secondo il team principal:

Avere un pilota americano nella nostra squadra è sempre uno dei nostri obiettivi, ma al momento non è in cima alle priorità. Se anteponessimo un pilota solo perché statunitense senza che sia all’altezza del compito, non sarebbe una buona scelta per lo sport. Al momento, a mio parere, non credo ci sia sul mercato nessun pilota americano pronto per la F1“.

Apriti cielo! In men che non si dica sono arrivate le risposte piccate (per usare un eufemismo) da parte dei principali attori del motorsport a Stelle e Strisce, a cominciare da Mario Andretti che ha definito il commento di Steiner “Errato e arrogante!“, per non parlare di Graham Rahal: “Sono completamente delle c…ate! Se davvero la pensa così, che chiami qualcuno di noi, perché abbiamo piloti dannatamente bravi e di talento!”

Adesso, al di là della polemica che forse può aiutare più i diretti interessati che altro, in realtà la faccenda è più profonda di quanto non si possa pensare, pur premettendo che il sottoscritto non crede ad una precisa e distinta razza di piloti necessari per la F1, ma non può che provare ad impostare un ragionamento su delle differenze che hanno sempre contraddistinto le gare americane da quelle europee, da cui nasce la stessa F1. Infatti, un primo appunto possiamo metterlo sul fatto che anche i vivai delle scuderie della massima serie e le categorie “cadette” non brulicano certo di piloti o di potenziali esordienti provenienti dagli USA.

La realtà è che culturalmente siamo popoli completamente diversi nel vivere il motorsport a quattro ruote, noi nasciamo con le sospensioni indipendenti, loro col ponte posteriore, loro corrono con la tecnologia ridotta al minimo, la F1 sembra invece accartocciarsi su se stessa proprio sul voler essere pioniera nel settore dell’auto come massima espressione dell’ingegno applicato alla vettura, loro riescono a trovare spettacolare vetture che girano in tondo su un ovale, noi vogliamo circuiti che invece siano difficili per esaltare le capacità dei piloti, loro vanno in pista anche con 40 dollari mentre noi li spendiamo solo per andare a prendere il treno che ci porta al circuito più vicino.

Intendiamoci, sarebbe interessante vedere gente come Newgarden, Castroneves, Kanaan o Hunter Reay in F1. Ma le differenze culturali e di contesto in cui i piloti americani “crescono”, conseguono in tipi di approccio e di guida che forse non convincono i numerosi e valorosi talent scout dei team della classe regina.