Chi segue questo sito è certamente appassionato di guida , oltre che di tecnica. Ed ha quindi un sogno nel suo intimo: guidare una Formula 1. Per mia fortuna io quel sogno l’ho realizzato. Non una ma due volte. Ed in due periodi diversi. A distanza di oltre dieci anni. Testando, quindi, due diverse concezioni della tecnica. Verificandone l’evoluzione ma anche prendendo coscienza della difficoltà di gestire un bolide che offre sensazioni meravigliose: un’ebbrezza paragonabile alla scalata di un ghiacciaio o quella di affrontare le gigantesche onde di un oceano con una tavola da surf. Al limite dell’umano.
1994. Un amico conosciuto sulle piste della Formula 1, uno dei soci della bresciana Scuderia Italia che tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90 entrò nel “Circus” della F1 con la Dallara, ha comprato la vettura motorizzata Judd che nel 1991 aveva partecipato al Mondiale con JJ Lehto. Ai primi di marzo mi telefona e mi propone di trovarmi sulla pista di Misano Adriatico per provare la sua F1. Tra l’altro in coincidenza con il mio 54° compleanno. Quale regalo migliore?
Mi ritrovo dunque sul tracciato romagnolo insieme ad altri personaggi che – beati loro! – sono proprietari di altrettante Formula 1: dall’imprenditore Lucchini, che fu l’animatore dell’operazione Dallara, con il più recente esemplare della Scuderia, al proprietario della Britax che ha la Tyrrel “ali di gabbiano” usata da Jean Alesi, al conte Zanon con una bellissima Williams dell’era Patrese, al pilota Pier Luigi Martini che ha tenuto per sè la Minardi con la quale ottenne la prima fila a Detroit nel 1990. Ed il mio amico Vittorio Palazzani con la Dallara ex JJ Lehto.
La pista, noleggiata dagli owners, è organizzata in assetto gara, con i box aperti a questi mini-team con meccanici ed ingegneri, il personale di sicurezza lungo il tracciato ed un mini-paddock attrezzato per l’ospitalità. Le macchine sono già pronte. Alcune già in moto emettono il loro ruggito: quel ruggito alterno che si può gustare sulle piste quando nei team ci si prepara ad aggredire l’asfalto. Ed io sono lì, immerso in quell’ambiente, mentre indosso la tuta ignifuga, le scarpette, da guida, il sottocasco e, quando è il mio momento, il casco. Il “mio” ingegnere di pista è l’ing. Bruno (scusate se è poco) che tutti conoscono oggi per essere il commentatore tecnico della telecronache RAI. Mi calo nell’abitacolo e l’emozione è già altissima. Non sei seduto ma molto allungato: il seggiolino è rigido e non vedi i pedali là in fondo. Devi trovarli con i piedi. mi legano le cinture bloccandole in maniera rigidissima. Sto vivendo una realtà speciale, anche se ho già guidato in pista delle Formula Abarth, delle Formula 3 ed una Sport 2000. Ma bisogna essere freddi e concentrati: l’ing. Bruno mi spiega le funzioni dei comandi, mi da tutti i consigli necessari, dalla partenza alla guida. Il cambio è manuale, con la leva sulla destra: durissima da azionare, con le posizioni invertite, la prima in basso verso di te, le marce sono 6.
Ed arriva il momento magico: i meccanici ti avvertono che stanno per mettere in moto il motore. E’ un urlo lacerante ma paradisiaco, lì, dietro le tue orecchie, mentre tutta la macchina comincia a vibrare e tu con l’acceleratore comandi quell’urlo. Devi salire di giri, più su, sempre più su. Poi abbassi la visiera del casco e mentre porti i giri verso i 10.000 e tutto vibra, premi il pedale della frizione ed inserisci la prima. Senti un “crac” di ferraglia dietro di te e l’auto fa un piccolo sobbalzo. Acceleri ancora e rilasci la frizione: la machina si muove e balza avanti…. ma si spegne tutto! Non hai mantenuto abbastanza alto il numero dei giri. Si riaccende il motore, si rifà la procedura e questa volta riesci a partire. Esci dalla pit-lane e sei in pista. Solo. Tu e la Formula 1, che devi dominare. Ti sembra di essere nell’eden. Ma devi prendere coscienza della realtà: ti guizza al fianco un’altra vettura, occhio agli specchietti! E intanto devi progredire con le marce. Mamma mia, quanto è duro il cambio! Ora capisco perché Ayrton Senna quando guardava la TV la sera a casa teneva sempre fra le mani una palla da tennis e la premeva continuamente per tenere allenata la mano destra allenata alla sforzo. E intanto prendi conoscenza della pista, delle varie curve, delle accelerazioni, dei punti di frenata, senza spingere sull’acceleratore perché devi capire le reazioni della macchina. Problemi di tenuta di strada non ce ne sono certo. La machina va piatta, è rigida, ma è sensibilissima all’acceleratore. Ci sono i quasi 700 cavalli del motore Judd 3.500 cc 10 cilindri da dominare. Intanto ti gusti quel rombo possente che arriva dal cofano dietro le tue orecchie, e sei tu, con l’acceleratore, a modularlo. Il cambio è impegnativo, specialmente in scalata: devi azzeccare la posizione delle marce e stare molto attento al contraccolpo del freno motore passando alla marcia inferiore. Si potrebbe innescare una sbandata se sei in curva. E vai, vai, vai… I giri si susseguono, prendi confidenza con la macchina, azzardi qualche traiettoria in curva, e quando passi sul rettilineo ben oltre i 200 orari senti l’aria che ti penetra nel casco e ti fa leggermente ondeggiare il capo. Attenzione perché basta un piccolo movimento del volante, molto diretto, per farti perdere la linea. E quando cominci ad affiatarti ti segnalano che sta finendo il tuo stint: i primi 16 giri. Per fortuna sai che ce ne sarà un secondo, nel pomeriggio, e ti accingi a rientrare ai box con un filo di dispiacere.
Arrivi al box, ti slacciano le cinture, togli il casco e la tua felicità traspare. L’ingegnere, i meccanici, l’amico Vittorio ti chiedono impressioni, sensazioni, pareri. Meraviglioso! Per un attimo ti senti pilota vero. Ma il bello deve ancora arrivare.
Al pomeriggio nuovo stint. Mi aspettano altri sedici giri di Misano. L’amico Vittorio mi chiede se nella curva veloce che immette al rettilineo di ritorno ho messo la quinta. Non l’ho messa. “Prova – mi dice – vedrai come scivola bene”. Ci provo, dopo due o tre giri di adattamento, e la leggera impuntatura della durissima leva del cambio mi provoca un movimento del corpo che va a spostare appena il volante: quanto basta per trovarmi sull’erba sul lato sinistro della pista. Con freddezza non tocco il freno, alleggerisco l’acceleratore, faccio 50 metri sull’erba e quando la velocità è calata quanto basta mi riporto sull’asfalto per proseguire. Quando tornerò al box il commissario che era in quella sezione di pista mi dirà: “Ero pronto a venirti a tirar fuori. Ma sei stato bravo a cavartela”.
Al giro dopo ci riprovo e va tutto bene. Effettivamente la velocità di uscita è superiore. E con le marce lunghe è tutto più sciolto. Sul rettilineo principale riesco a tirare quasi al massimo: probabilmente intorno ai 250 orari. Ma qui non c’è tachimetro. Solo il contagiri ed i manometri di acqua e olio per le temperature e la pressione. Però quando sei impegnato nella guida non ce la fai a guardarli. Anche perché ci sono le altre macchine che girano e devi ben guardare negli specchietti. Un’impresa. Rientrato ai box felicissimo, una volta sceso chiedo a Martini: “ Ma come fate voi piloti a guidare, controllare gli specchietti, disimpegnarvi dalle altre macchine e guardare la strumentazione mentre tutto vibra in maniera impressionante?”. La sua risposta è semplice: “ E’ il nostro mestiere. Io non saprei fare il tuo”. E allora me ne torno alla mia macchina da scrivere (all’epoca non c’erano ancora i computer) in attesa di una prossima occasione. Che verrà. Una decina di anni dopo con la Renault di Formula 1 che Fernando Alonso portò al titolo mondiale. Sulla pista di Le Castellet, al Paul Ricard.
Ma questa esperienza ve la racconterò la prossima volta.