Per un campione è importante avere un obiettivo da raggiungere. Lewis Hamilton, dopo il quarto titolo mondiale che lo ha appaiato ad Alain Prost, ha esplicitamente dichiarato che ora nel suo mirino c’è Manuel Fangio, con i suoi cinque titoli iridati.
E deve giustamente crearsi un traguardo, un bersaglio nel mirino da raggiungere. Perché se un campione si appaga di quel che ha ottenuto non avrà più le motivazioni necessarie per forzare se stesso verso quel risultato.
In mancanza di quelle motivazioni il pilota non riuscirebbe ad affrontare lo stress degli allenamenti fisici, dei test, dei briefing con gli ingegneri, della pressione dei media, della vita zingaresca che il succedersi dei Gran Premi comporta, della passione dei tifosi che a volte si fa opprimente.
Dunque l’obiettivo è Fangio, il pilota argentino che per anni, fino all’impresa dei sette titoli di Michael Schumacher, è sempre stato considerato “ l’irraggiungibile”.
E proprio di Fangio voglio parlare e del suo debutto al volante di una Formula 1
1949 Circuito di Ospedaletti. Gran Premio di Sanremo. Avevo 9 anni e mio padre mi portò a vedere “ la corsa”. Così si diceva all’epoca. Erano i tempi eroici, tutto era molto naif.
Nei box ( si fa per dire, era un’area di un parcheggio, all’aperto dove fra le macchine si muovevano piloti, meccanici, mogli, curiosi, appassionati ) c’era tanta animazione. Da una parte c’era il grande Louis Chiron, con una Simca-Gordini. Attorno a lui belle signore, dirigenti in giacca e cravatta, fotografi e giornalisti. Un po’ più in là mi colpì una Maserati azzurra con il cofano giallo appoggiata sul fianco, a coltello, sulle due ruote di piatto. Ed il pilota, con una tuta azzurra, in piedi, lavorava con una grossa chiave inglese alla pancia della macchina che, così posizionata, era a portata d’intervento. E regolava qualcosa ( i freni? il cambio? ). Era Manuel Fangio. Decisi subito che era lui il mio pilota, anche se avevo simpatia per il principe siamese Bira che l’anno prima era stato l’idolo della folla per aver portato a spinta sul traguardo la sua Maserati rimasta senza benzina quando era terzo.
Fangio era al suo debutto italiano e faceva parte della squadra argentina voluta dal presidente Juan Peron, composta da due piloti: Juan Manuel Fangio e Benedicto Campos. Due Maserati 4CLT/49 erano state comprate appositamente dal governo argentino.
Fangio vinse, precedendo Bira e De Graffenried. Tre Maserati a primi tre posti. Assenti le Ferrari 125 a doppio compressore di Ascari e Villoresi. Iscritte ma non vennero inviate. I test avevano evidenziato una scarsa preparazione.
Ecco, questi erano i Gran Premi dell’epoca. E la sicurezza? Non se ne parlava proprio. Il circuito di Ospedaletti, lungo poco più di tre chilometri, era simile al tracciato di Montecarlo, con i saliscendi sulla collina ed il passaggio in città. Il percorso era in alcuni punti affiancato da massicci muraglioni ed una strettoia su di un ponticello era come una tagliola. Qua e là qualche balla di paglia, unica protezione. Erano tempi eroici ed il pilota doveva essere appassionato, coraggioso, audace nella guida, stratega e manager di se stesso e perfino meccanico, in alcuni casi. Come Fangio appunto.
Il quale l’anno dopo, nel 1950, tornò ad Ospedaletti ma al volante della debuttante Alfa Romeo 158. Al suo primo impegno contro le Ferrari di Ascari, Villoresi e Sommer vinse ancora sul circuito “fra gli ulivi ed il mare”. Per l’Alfetta 158 fu il viatico per il neonato Campionato Mondiale di Formula 1 che stava per iniziare e che l’Alfa vinse conNino Farina. L’anno dopo, 1951, il Campione del mondo con l’Alfa Romeo sarebbe stato lui: Manuel Fangio, che avrebbe conquistato il titolo altre quattro volte: con la Mercedes ( due volte ), la Ferrari e la Maserati 250F.
Quasi 70 anni dopo quel debutto al quale ho assistito Fangio dovrà subire l’attacco al quinto titolo iridato da parte di Lewis Hamilton. In comune hanno la capacità di coniugare l’abilità, il coraggio e l’intelligenza.