Donnini a Pit Talk: “Alonso e la Indy 500, un segnale stupendo”

Nella puntata 103 di PitTalk è intervenuto ai nostri microfoni Mario Donnini, firma del settimanale Autosprint. Donnini ci ha parlato della scelta e degli esiti dell’avventura americana di Fernando Alonso alla 500 miglia di Indianapolis, tristemente conclusasi con la rottura del motore Honda. 

di Marco Santini

 

Un tuo giudizio sulla scelta di Fernando Alonso, che salta Monaco per la Indy 500? Sta cambiando qualcosa molto in fretta?

È stato un segnale stupendo perché ci eravamo abituati ad una Formula 1 che era diventata un buco nero, che inghiottiva la gente e non la lasciava più finchè era ricca, vecchia, sfatta. Poi improvvisamente arriva un insoddisfatto di mezza età che ti cambia la storia. Perché Alonso nella fase più sfigata e arrabbiatissima della sua carriera, dove cerca una via di uscita e decide di cambiare mondo, andando a sfidare gli alieni ad Indy. Compiendo un gesto, quello di andare ad Indianapolis, che negli anni 60 e 70 era allordine del giorno: Rindt, Stewart, Brabham, Hill ci andavano, era una cosa logica. Adesso i piloti guadagnano 30 milioni di dollari, hanno lelicottero, fanno le rockstar: chi glielo fa fare di andare a fare la lotta col muro?

 

Cosa ne pensi della rottura del motore Honda di Alonso nella Indy 500?

Ho parlato al telefono con Mario Andretti che mi ha dato una chiave molto interessante per leggere laffidabilità Honda, perché mi spiegava che i tecnici Honda prima della gara hanno chiesto ai team quale configurazione utilizzare, da una versione super affidabile ed una col massimo del range disponibile da prestazione a fronte di un aumento dellindice di rischio. Tutti i team Honda hanno scelto la seconda opzione e da qui si può spiegare la rottura di Alonso.

 
Tu hai scritto anche libri sul Tourist Trophy, di cui sei appassionato, trofeo nel quale la sicurezza è messa in secondo piano. Pensi che il livello di sicurezza, ad esempio, dell
Indycar sia paragonabile a quello della Formula 1?

La Formula 1 negli ultimi anni è diventata un prodotto commerciale, quindi un prodotto da vendere e di conseguenza non possono esserci infortunati, ospedalizzati, perché non va bene per le famiglie. Lo sponsor, le aziende, le pay-per-view entrano nelle famiglie e deve esserci qualcosa di rassicurante nello spettacolo, che sia dolce, simpatico e sorridente. Qualsiasi sport si è ammosciato per rendersi più appetibile agli sponsor e alle televisioni. La cosa in comune tra la Indycar e il Tourist Trophy è la radice anglosassone: loro hanno un rapporto con la morte diverso tra quello del latino e del neo-latino, accetta il rischio e se si fa la bua non piange. Il latino invece è più emotivo, dove il primo che si fa male stanno tutti a piangere. Ma è proprio la diversa lettura della morte nella filosofia latina ed anglosassone. Ad Indianapolis e sullIsola di Man, il muro paradossalmente non è combattuto ma idolatrato e lo è poiché ignorato in gara.

Qual è il campione a cui sei affezionato nel Motorsport, che ti ha emozionato di più?

Su questo sono a nudo e mi confesso: è Bob Wollek, che per 30 anni prova a vincere la 24 ore di Le Mans e mai ci riesce. Questa è una storia che mi ha stregato, perché mi ricorda quello che al liceo era la curva asintotica, che è tangente allinfinito allasse ma non riesce mai a toccarla. Lui si è dimostrato tangente allinfinito alla vittoria a Le Mans, ma al momento giusto gli si rompeva sempre qualcosa. Il rischio ora è che succeda lo stesso ad Alonso ad Indianapolis, perché è andato alla grande la prima volta ma non ce lha fatta. Secondo me se ci riprova ma fa più fatica della prima, perché Indianapolis è un posto femmina, un posto che comanda lei, dove la seconda opportunità è più difficile della prima. Ad esempio Nigel Mansell nel 1994, alla seconda volta, ha fatto più fatica della prima.