26 maggio 2015 – Suona il telefono. Dall’altra parte la voce di Gigi Villoresi: “Alberto, siamo a Monza per una prova. Ti va di raggiungerci?“. In un primo momento Alberto è titubante, ma alla fine decide di raggiungere l’amico. Esce di casa, in abiti civili, lasciando dietro di se il portone di casa aperto come voleva la sua amata moglie Mietta e una vita normale che sembra l’antitesi del divo; una vita alla quale non tornerà più. Costui è Alberto Ascari; il pilota italiano più forte ad aver mai corso in Formula 1.
Era nato in una casa di Corso Sempione a Milano. Alberto Ascari, figlio del grande Antonio Ascari morto a Monthlery nel 1925 in un cruento incidente, dopo essere scampato miracolosamente ad un altro pochi giorni prima. Vabbè andiamo avanti. Si era fatto le ossa, e che ossa, sulle moto; ottenendo svariati successi. Lo attraevano le automobili, ma era riluttante all’idea di cimentarsi con esse. Il paragone col padre incuteva parecchio questo ragazzone di ventidue anni che era soprannominato, proprio dal padre, “Ciccio”. No, nessuna presi per i fondelli alla sua stazza, ma un carattere calmo, tranquillo, buono.
Il “Ciccio” in pista diventava una bestia. Ascari era un pilota apprezzato per la sua incredibile capacità nel risparmiare il mezzo, come se accarezzasse l’asfalto con le gomme. Capace, però, di spremere contemporaneamente la vettura nelle prime fasi di gara, crearsi margine sugli inseguitori e infine gestire fino al traguardo. Come se avesse scritto tutto lui, come se fosse tutto calcolato. Un’operazione algebrica che gli è riuscita ben 13 volte in carriera, di cui 7 consecutive (tra Belgio 1952 e Argentina 1953) record assoluto e imbattuto per 61 anni (Vettel nel 2013). Record che sarebbe ancora suo, se non fosse per quella 500 miglia d’Indianapolis che, come tutti i piloti “europei”, veniva saltata a piè pari e lasciata agli assi americani. Delicato col mezzo, si diceva, ma anche sopraffino nel sfruttare al massimo il suo potenziale. Quattordici pole position, dodici giri più veloci e diciassette podi; il tutto ottenuto in appena trentadue partecipazioni. Percentuali ancora oggi difficili da raggiungere, che dimostrano a pieno il talento di Ascari. Vittorie anche alla Carrera Panamericana, alla 1000 Km del Nurburgring, al Rally del Sestriere e due ottimi piazzamenti alla 24 ore di Le Mans; perchè i veri talenti vanno forte sempre, ovunque e comunque.
In Formula 1 era semplicemente il migliore. Due titoli mondiali con la Ferrari (1952 e 1953), ottenuti negli anni pionieristici dove le vie di fuga erano distese di alberi. Tutti e due ottenuti con la Ferrari, con cui aveva un rapporto speciale, unico. Enzo Ferrari, grande amico di Antonio Ascari , aveva preso sottobraccio Alberto Ascari dal giorno in cui decise di mettere piede su un’auto da corsa fino alla dolorosa separazione. Dolorosa per via di un’amicizia che non fu scalfita, ma che non era più la stessa. Duecento milioni di Lire, mise la Lancia sulla scrivania di Ferrari pur di accaparrarsi il pilota migliore del momento, senza neppure avere una vettura costruita. Follia pura, ma anche spirito di crescita che in quella Italia degli anni ’50 era tutta rabbia per lasciarsi alle spalle gli anni bui della guerra. Nel 1954 la Lancia non è ancora pronta per i Gran Premi e Ascari guida per Ferrari e Maserati grazie a speciali deroghe contrattuali. Andò vicinissimo a fermare lo stra potere Mercedes – Fangio (suo grandissimo rivale) di quell’anno, a Monza, ma fu fermato dal motore mentre guidava una Ferrari. Si consolò con la strepitosa vittoria alla Mille Miglia, guidando una Lancia D24 , aggiustando il cavo dell’acceleratore rotto con la cintura dei pantaloni.
Il talento di un’uomo normale, verrebbe da dire. Chiuso in se stesso, chiamato “Ciccio” ma assiduo mantenitore della forma fisica. Roba che in anni cui la sigaretta e il cicchettino post gara erano prassi, lo facevano sembrare un’alieno quando Roswell era ancora una ridente cittadina americana. Un padre di famiglia che ha amato i suoi figli in maniera fortissima, ma senza accanirsi troppo, come a non creare legami forti con Antonio (in onore del nonno) e Patrizia; conscio che la morte è una variabile della sua equazione. E ci andò vicinissimo alla morte, al Gran Premio di Montecarlo di 60 anni fa, quando con la sua Lancia, passando miracolosamente in mezzo a due bitte da ormeggio che poi saranno fatali al nostro Bandini dodici anni dopo, finì in mare. Setto nasale rotto, un trauma e tanto spavento.
Poi quella tarda mattinata del 26 maggio 1955. Quando Ascari decide di provare la Ferrari 750 senza i suoi guanti, il suo casco e la sua maglietta azzurra, lui che era l’emblema della scaramanzia. “Il metodo migliore per farsi passare la paura dopo un’incidente? Salire subito in auto, il prima possibile e andare il più forte possibile” disse prima di salire in macchina. Due giri, poi il terzo e un tonfo assordante alla curva del vialone ( oggi in memoria sua Curva Ascari ), la Ferrari s’intraversa, si cappotta e schiaccia sotto al suo peso Ascari. E’ la fine di tutto. La fine di un uomo, di un mito, di un’epoca. La morte arrivata a trentasette anni ancora da compiere, come il padre, il giorno 26 sempre come il padre e dopo essere scampato miracolosamente ad un’altro incidente terribile , esattamente come il padre. Una morte arrivata come se fosse stata una sua leggerezza nel non portare con se casco e polo azzurre; gli amuleti portafortuna del campione.
Una previsione errata di un calcolatore, anzi dal re dei calcolatori. Un’equazione algebrica con un’incognita maledetta e infima che ha cancellato l’esistenza del più grande pilota italiano del dopoguerra. Il più grande nell’epoca in cui i freni erano a tamburo, le vetture a forma di sigaro, volanti in legno, i numeri dipinti con la vernice sulla carrozzeria e i pit stop erano fatti con mazzuole per svitare i gallettoni dalle ruote e imbuti per il rifornimento. Ascari: l’uomo che non lasciava nulla al caso e studiava tutto, ma non ha potuto calcolare che a distanza di 60 anni siamo ancora qua, sognanti e sognatori, come orfani profughi nel mare del motorsport, ad aspettare un suo erede.